Il giornalista Flavio Tranquillo si è collegato in diretta con Stadio Aperto, trasmissione di TMW Radio, analizzando il suo ultimo libro "Lo sport di domani", e i temi sui quali si regge: "La molla è stata forse il senso di colpa di aver sottovalutato a lungo una dimensione generale come lo sport che è il mio lavoro ma che ha anche gratificato la mia vita, e non mi sono reso conto che dietro questa parola ci sono grandissime potenzialità. Il lato agonistico è interessantissimo, però c'è moltissimo di più e quindi mi sono voluto interrogare su quello per trascinare qualcuno su quel terreno".
Perché sport e istruzione sono diventati antitetici? "Provo a descriverlo nel libro, è un po' lungo. Cominciamo a chiederci se effettivamente sia così: per me i fatti dicono di sì. Se però sentiamo continuamente che manca la cultura sportiva, che dovremmo insegnarla, beh, c'è da risalire alle cause. Con la bacchetta a fare i critici possiamo dare bacchettate all'aria, ma non cambia molto: per ricostruire la cultura bisogna ripartire da zero ed entrare dentro la scuola. Non vedo altri veicoli di costruzione: a quel punto fai la casa e poi metti il tetto".
Dove sentiremo più male? "Spero di poter usare il condizionale: se continuassimo a portarci dietro le cose pre-virus, useremmo la cosa nella maniera sbagliata. Ogni pandemia è stata una parentesi, lo dice la storia, ed ha lasciato segni ben oltre la sua durata. Una cosa però sono i segni, un'altra è utilizzare quanto sta succedendo per giustificare quello che c'era prima. I problemi dello sport esistono chiaramente prima del virus".
Serve fare tabula rasa anche del modello formativo e scolastico? "Se per sport intendiamo fare del movimento, o cultura del movimento, è troppo limitativo. Una restrizione rispetto alle sue possibilità: c'è anche molto altro, e riguarda sia il cuore che la testa. Mi sembra oggettivo che lo sport crei un coinvolgimento emotivo molto forte, e se dentro la scuola ci fosse la fusione con i meccanismi di apprendimento e di conoscenza, faremmo tredici. Credo che serva dare e prendere dalla cultura: lo sport impara dalla filosofia, e chiaramente lo è come storia, italiano, matematica, statistica... Potremmo legare con facilità queste due dimensioni".
Sullo sport di base si è schierato. "Mi piacerebbe che non fosse interpretata la mia asserzione come un "dateci lo sport di base", o "sosteniamo lo sport di base". L'assunto è che la locuzione dello sport di base, in questo momento, non sia effettivamente erogata dalle autorità. L'appello non è quello che un po' insistentemente e limitato viene fatto di continuo, cioè quello di dare soldi. L'assunto è: il modello di lasciar fare tutto ai privati è fallito, che piaccia o no. A quel punto andrebbe chiesto alla politica se vuole aderire nel ricostruire il modello. Noi, Stato, dobbiamo dare pari accesso al diritto dello sport come quello per la scuola dell'obbligo".
Come reagisce a chi invoca il modello americano? "Si può discutere su falsi bersagli o falsi presupposti, su fatti verificati o meno. Se continuiamo a insistere su una discussione del cosiddetto e preteso modello americano che non esiste e, laddove esistesse, non corrisponderebbe comunque alla ricostruzione superficiale che ne viene data, perdiamo il nostro tempo. Bisogna pensare che in USA sono 330 milioni gli sportivi, e viene fatto sport nelle scuole. Sento parlare ogni giorno di fare il salary cap, salvo poi concludere che non si può. Qua si pensa semplicemente a ridurre gli stipendi, e il salary cap è tutt'altro che una compressione del costo del personale. C'è un giocatore NBA entrato negli scambi di questi giorni, che si è trovato in tasca 7 milioni solo perché servivano quei soldi per chiudere l'accordo contrattuale. Buon per lui, ma serve per spiegare che il salary cap serve per mantenere l'equilibrio competitivo e non a contenere i costi, ma a correlarli".
Sul tema dilettantismo-professionismo, cosa ci dice? "Il tema ovviamente è enorme. Basta un attimo e la cosa si trasforma in una disputa legale-normativa-terminologico-semantica. Una cosa poco produttiva. Se guardiamo in faccia alla realtà è necessario dire: se una persona fa sport per il proprio sostentamento, è evidentemente un professionista, e chi glielo garantisce è chiaramente un imprenditore che paga salario alla forza-lavoro per conseguire normalmente un profitto. Se invece fa sport con altre modalità, non può essere nello stesso compartimento di chi gioca per un risvolto economico, non importa quanto grande. Questo, ipocritamente, viene chiesto dal sistema".
Come risolvere i problemi col sommerso? "La situazione è molto seria e questo suggerisce di non continuare su un fare sbagliato. Cosa significa fare giusto? Non preoccuparsi del consenso che generano norme, indirizzi o strade che si prendono, ma preoccuparsi contemporaneamente di due cose: la prima, argomento che viene sbandierato sempre nella maniera sbagliata, è che tantissime persone vivano di sport. Ed è evidente che debbano essere messi in primo piano, garantita loro la dignità e non continuare a sperare nell'emersione del sommerso. Le economie sommerse danno problemi a chi le rappresenta e alla società: mentre aiutiamo chi oggi è nel sommerso, facciamo in modo però che già da oggi non lo sia più. Invece c'è un palleggio di responsabilità sulla questione degli oneri previdenziali e la mancanza dei soldi per applicarli. Così non è essere responsabili. Chi fa sport ha la stessa dignità di chiunque altro lavori".
Le sono venute le bolle quando ha sentito a una bolla stile-NBA per la Serie A? "A loro la parola bolla non piace, preferiscono campus... Comunque loro avevano un miliardo e mezzo di dollari sul tavolo che dipendevano dalla possibilità di tornare in campo, o sarebbero stati persi distribuendo le perdite su tutti gli attori, quindi più i giocatori che i proprietari. Questo perché nel contratto collettivo è previsto cosa accade pure in caso di epidemia... Così hanno organizzato tutto quello per non perdere il miliardo e mezzo. Serve identificare perché li lo possano fare, avendo i mezzi per reagire ad una situazione così complessa essendosi attrezzati prima e non correndo ai ripari dopo. C'è bisogno anche di rendersi conto se una crisi o più o meno grave... Se non ci sono i mezzi economici, non la fai, ma è bene sapere che facendola loro hanno avuto certi vantaggi e che per un domani, potremmo rimuovere discorsi come si sono sentiti su chi avrebbe vinto il campionato qualora non avessero ripreso".
Quanto servono manager di alto livello? "Sono più che certo che noi in Italia abbiamo una qualità potenziale di management sportivo elevatissima, e soprattutto la possibilità di attrarre una quantità di manager che in questo momento non agiscono nello sport, e che ci entrerebbero cavalcando perché sognano di lavorarci 24 ore al giorno. Perché questo non avviene? Perché gli obiettivi sono diversi. Glorificando la NBA come dei maghi o dei geni sbagliamo, hanno obiettivi di un certo tipo per i quali è naturale sacrificare risorse, che diventano investimenti. L'obiettivo non so quale possa essere, ma di certo se non hai l'obiettivo di guadagnare non fai investimenti, e senza quelli non arrivano i manager, condizione necessaria ma non sufficiente per trasformarli in profitti. Le domande sono due, e facili: politica, vuoi garantire lo sport per tutti? Sport, vuoi perseguire i profitti? Se le risposte sono no e va bene alla maggioranza, io non sarei d'accordo, allora ok così. Altrimenti parliamoci, così ci capiremo meglio".
I temi interessano troppo le platee a seconda di chi è il testimonial? "Qui siamo al nocciolo della questione. Siamo partiti dall'idea che lo sport potrebbe contaminare quella che noi chiamiamo "cultura ufficiale" e viceversa. In realtà già adesso lo sport la contamina, in un senso però che io ritengo notevolmente negativo: l'approccio stile tifo. Mi spiego: non che sia un male tifare, ma lo è utilizzare l'approccio tipico del tifo declinato male. Questo anche per via di alcune piattaforme che utilizziamo male, ed è uno dei punti su cui intendersi. Voglio la Superlega perché tifo per una squadra coinvolta o meno? Ma questa non può essere una maniera di ragionare... Se la Superlega diventasse veicolo per rendere profittevole il calcio professionistico, la questione non sarebbe se piacesse a me o meno. Potrei dire: vado ancora a vedere il Catanzaro, o diversamente. Qualsiasi squadra deve rappresentare un'impresa di successo: se devono far sognare, ok, ma non è il punto. Io non posso sognare coi soldi di un'impresa, questo non può funzionare".
Dove sta andando lo sport italiano? "Non credo che la risposta sia drammatica. Azzardo un'analisi di scenario: lo sport ha una tale vitalità, e un'importanza su questioni che una volta venivano collegate a concetti tipo ideologia e appartenenza, che non può esserci una situazione drammatica in certi termini. La macchina ha un motore sul quale si potrebbe volare con poche modifiche, ma non si vogliono fare. Alla fine poi in qualche maniera ti ci porta dove devi andare, anche se lentamente, meno efficacemente e in modo molto meno comodo. Se si guarda solo alla tradizione, è roba da operetta: questo non impedisce di guardare al tutto progressivamente".
C'è una specie di sineddoche di massa in Italia nell'identificare gli sport con un riferimento solo? "Ho un quaderno qui, e se lo giro due pagine dietro c'è la parola "sineddoche". Come metodo di ragionamento continuiamo a prendere una parte per il tutto... Usarla come metodo di ragionamento, è rovinoso: l'insieme per il tutto, non lo forma, o comunque lo forma particolarmente inefficace. Serve spogliarsi mentalmente di ogni pregiudizio ed essere onesti con noi stessi, non siamo stati capaci di costruirlo. Limitarsi a vedere quanto conosciamo meglio e ci torna di più è più facile, ma oggi è il momento delle cose difficili".